Ignazio Giunti è ricordato dagli appassionati e dagli storici dell automobilismo per l impresa compiuta nel 1968, quando a Le Mans si classificò 4° assoluto, al volante di un Alfa 33/2 dell Autodelta con motore 2,0 litri

Il sogno di Ignazio Giunti, il romano re dei prototipi che nel 1968 vinse a Le Mans

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LE MANS - Tra i piloti italiani che hanno contribuito a scrivere la storia della 24 Ore di Le Mans (su tutti Emanuele Pirro, 9 podi consecutivi, 5 trionfi) ce n’è uno che sul circuito di Le Sarthe non ha mai vinto, ma sicuramente ha recitato un ruolo da protagonista finché un destino crudele non se l’è portato via, a soli 29 anni. È Ignazio Giunti, caduto in pista nel 1971 per un’assurda disgrazia durante la 1000 km di Buenos Aires, ma ricordato dagli appassionati e dagli storici dell’automobilismo per l’impresa compiuta nel 1968, quando a Le Mans si classificò 4° assoluto, al volante di un’Alfa 33/2 dell’Autodelta con motore 2,0 litri, alle spalle delle più potenti Ford GT 40 (5,0 litri) e Porsche 907 e 908 (3.0 litri) affidate agli equipaggi composti da Pedro Rodriguez-Lucien Bianchi, Rico Steinmann-Dieter Spoerry e Jochen Neerpasch-Rolf Stommelen. Al di là del piazzamento ai piedi del podio, impressionò di quell’impresa il fatto che per alcuni giri l’auto guidata da Giunti (e dal compagno di squadra Nanni Galli), mantenne a sorpresa il comando della corsa, mettendosi alle spalle i mostri di Ford e Porsche e vincendo nella classe fino a 2.0 litri.


Quell’anno Giunti finì anche secondo alla Targa Florio, mentre l’anno successivo (1969) guidò in coppia con Galli un’Alfa più potente, la 33 TT 12 cilindri. Gli ottimi risultati gli procurarono l’attenzione della Ferrari e gli aprirono le porte della categoria Sport Prototipi alla guida della 512 del Cavallino. Nel ‘70, in squadra con Mario Andretti e Nino Vaccarella, s’impose nella 12 Ore di Sebring al volante della Ferrari 512S; fu secondo nella 1000 km di Monza e due volte terzo, alla Targa Florio e alla 6 Ore di Watkins Glen. Un’escalation che gli valse la fama di specialista delle gare endurance e gli spalancò anche le porte della Formula 1.


A distanza di 45 anni dall’incidente fatale, resta dunque vivo il ricordo di quel ragazzo romano, rampollo d’una nobile famiglia d’origini calabresi, che aveva cominciato a correre, all’insaputa dei genitori, per pura passione, ed era poi approdato ai vertici dell’automobilismo, scalando uno a uno, a suon di vittorie, tutti i gradini della carriera sportiva. Una carriera inizialmente concentrata sulle cronoscalate, poi sviluppatasi anche in pista, prevalentemente sul circuito di casa, dove colse tante vittorie da guadagnarsi il soprannome di “reuccio di Vallelunga” (nel paddock dell’autodromo romano c’è un busto in bronzo a lui dedicato). Una Giulietta TI, una SZ, una BMW 700, un’Abarth 1000 le auto degli esordi; l’Alfa GTA preparata dal mago romano dei motori Franco Angelini lo spinse ai vertici del campionato italiano, prima di passare alla scuderia Jolly Club per poi approdare, dopo qualche esperienza anche in Formula 3, all’Autodelta di Carlo Chiti, nella squadra ufficiale Alfa Romeo, e infine alla corte di Enzo Ferrari. Il quale, come detto, gli concesse di debuttare anche in Formula 1 (4° all’esordio a Spa, dove sostituì Regazzoni affiancando Jacky Ickx) ma non fece in tempo a valorizzarlo del tutto. «Giunti – disse di lui il Drake – aveva talento e avrebbe potuto consolidare un brillante avvenire, ma una disgrazia inconcepibile e piena di impietose ombre ce lo ha strappato senza lasciarci il tempo di apprezzarne compiutamente tutte le qualità».


La tragedia avvenne il 10 gennaio del 1971, al 38° giro della gara di apertura di quello che allora si chiamava campionato internazionale Sport Prototipi. Jean Pierre Beltoise, su Matra, rimase senza benzina in prossimità della curva prima del rettilineo principale; scese dall’auto e cominciò a spingerla verso i box: una manovra vietata, ma all’epoca tollerata, in quanto i piloti venivano spinti dalle stesse scuderie a riportare a tutti i costi l’auto ai box. Il direttore di corsa, Manuel Fangio, non intervenne; i commissari lasciarono fare e, quando sopraggiunsero le auto di Parkes (doppiato) e Giunti (al comando) accadde l’irreparabile: coperto dall’auto di Parkes, che la scartò d’un soffio, Giunti non vide in tempo la macchina di Beltoise quasi ferma (il francese si era spostato lateralmente per girare il volante) e la investì in pieno.

La Ferrari numero 24 di Giunti prese fuoco e il pilota, intrappolato all’interno, non ebbe scampo. Sul posto accorse, con i primi soccorritori, il compagno di squadra Arturo Merzario e Giunti venne estratto ancora vivo dall’abitacolo. Ma spirò due ore dopo in ospedale. Ne seguirono polemiche e campagne di stampa molto aspre sulle responsabilità e sulla sicurezza nelle corse. Lo stesso Enzo Ferrari parlò di «una colpa rimasta impunita». Oggi, a 45 anni di distanza, resta solo il ricordo di un ragazzo perbene e di un pilota di valore, che ha saputo entrare nella storia delle grandi corse. Anche se non ha mai vinto a Le Mans.
 

 

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Martedì 21 Giugno 2016 - Ultimo aggiornamento: 22-06-2016 04:59 | © RIPRODUZIONE RISERVATA
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