Qualcuno diceva che era superata. La tecnologia di “transizione” aveva fatto il suo tempo di fronte a quella elettrica che, non c’è dubbio, ipotecherà il futuro. L’auto ibrida, si sa e ce lo ricorda il nome, è qualcosa di poco deciso. Un po’ “ambiguo”. Un’innovazione che tende al compromesso. Miscelando passato e futuro prima di compiere il grande balzo. Tiene i piedi in due staffe e, come tutte le mediazioni, può raggiungere vette meno ambiziose dovendosi portare dietro una parte di quella motorizzazione che vorremmo eliminare. Quella che si alimenta a idrocarburi, genera la climalterante CO2 ed emette pure diverse sostanze inquinanti. A che serve allora? Nella vita, molto spesso, la cosa migliore non è quella ideale, ma quella attuabile. Ed è sicuro che, almeno in alcuni Paesi fra cui l’Italia, imporre l’auto totalmente a batterie rappresenta correre troppo.
Elevati i costi, inadeguata la rete di ricarica. Così la motorizzazione ibrida ha ancora il suo perché: è utilizzabile da tutti, ha un prezzo niente affatto proibitivo e, soprattutto, sfoggia un percorso molto modulabile per costi e relative prestazioni. Il tempo passa, hybrid come la chiamarono gli ingegneri che l’hanno inventata, risale almeno a trenta anni fa quando l’inventore nipponico della Toyota “buttò” (con referenza...) sul tavolo del consiglio di amministrazione di Nagoya l’idea per uscire dalla stanza in cui l’avevano relegato: «Ecco qua. I veicoli gettano per strada una quantità enorme di energia. Se ne recuperiamo una parte, riduciamo i costi e, soprattutto, rispettiamo l’ambiente...». Da quella giornata sono passati quasi tre decenni, ma la scenetta è ancora estremamente attuale. L’ibrido, come detto, si evolve con il tempo.
Il più grande costruttore del mondo è già arrivato alla quinta generazione, rimanendo fedele alle scelte di Uchiyamada che, per rispetto, è tuttora, all’età di 77 anni (da 54 in azienda), il Chairman della società, il presidente dell’impenetrabile Consiglio di Amministrazione. I concorrenti, all’epoca (le esigenza ecologistiche non erano così allarmanti), non capirono la portata della novità e derisero la scoperta: «Produrre un vettura del genere è una remissione...». Invece ci avevano visto giusto. Soprattutto erano gli unici a pensare al futuro. Per qualche tempo, quindi, la soluzione proposta dalla casa delle Tre Ellissi rimase unica, almeno dal punto di vista produttivo. Sulla carta, però, i tecnici proponevano delle alternative ingegneristiche. Come si studiava nelle università, lo schema tecnico proposto dal Giappone (ibrido “in parallelo”, cioè il motore termico e quello elettrico lavorano insieme) veniva contrapposto quello “in serie”, cioè solo quello a batterie spinge la vettura (quindi è collegato alla trasmissione), l’altro ha il solo compito di fare da generatore ricaricando l’accumulatore man mano che l’energia si consuma.
Emergeva un altro tipo di ibrido che in realtà veniva accomunato a un elettrico puro (il passo è breve). Il veicolo in condizioni normali è spinto solo dalla trazione elettrica, ma quando il livello della batteria scende al di sotto di un certo limite, c’è a bordo un piccolo motore a scoppio in grado di produrre una quantità di energia elettrica sufficiente a non rimanere per strada. Questi sono schemi di funzionamento tecnicamente diversi, ma la produzione andava sempre più verso l’ibrido in parallelo (quello di Takeshi san), quindi quando arrivarono anche i rivali proposero idee diverse pur facendo lavorare i due tipi di motore insieme in modo sinergico. Il primo a fare l’occhiolino fu il “mild-hydrid” che spinse Toyota a cambiare il nome al suo per non confondersi con i nuovi competitor: “full-hybrid” che distingueva la presenza di un propulsore a elettroni “serio”, capace di spingere l’auto da solo fino a che c’era energia sufficiente nell’accumulatore (qualche chilometro).
Il mild apriva le porte a un mondo con un suo costo ridotto all’osso. Da un motore elettrico di pochi chilowatt, adatto solo a recuperare energia in frenata e in rilascio, ma da utilizzare soprattutto per i servizi, perché il contributo da dare alla dinamica di marcia era quasi impercettibile. A fianco al mild arriva il “plug-in”, la varante più complessa, anche del “full”. La cosa di maggior rilievo, in questo caso, è la spina per ricaricare l’auto direttamente da una colonnina, quindi in grado di andare per un certo numero di chilometri con energia pulita e non da idrocarburi e di essere pure un veicolo, fintanto il termico rimane spento, ad emissioni zero, proprio come un elettrico. Vetture di questo tipo possono essere ideali per chi giornalmente percorre pochi chilometri (una cinquantina) e quindi non ha bisogno del termico pronto ad entrare in ballo per distanza superiori. Le plug-in hanno il propulsore elettrico più o meno simile alle full, ma una batteria molto più grande e pesante (quindi più costosa) da 15 a oltre 30 kWh.
Il plug-in è una soluzione che hanno adottato tutte le case automobilistiche (Toyota compresa) da affiancare al full ed al mild che pian piano si divide in moltissime sotto categorie. Gli automobilisti (ed anche i progettisti) hanno piacevolmente scoperto che la propulsione elettrica non dà vantaggi solo dal punto di vista ambientale. Oltre a non inquinare, l’elettrico fornisce una coppia vigorosa sempre disponibile che cambia completamente le dinamica dell’auto, quindi il suo comportamento stradale. Al mild a 12 volt si affiancano impianti a 48 volt o anche a 140 come proposto dalla Suzuki. In questo modo si può montare un elettrico decisamente più potente (da 20-30 kW fino ad avvinarsi a 50), capace di influire anche quando l’energia viene rimessa in circolazione, cioè sulla dinamica di marcia. In tutte le fasi transitorie, nelle manovre e nel veleggiamento, intervengono gli elettroni che rendono i cambi di carico molto pastosi, proprio come un’auto elettrica.
Ecco che per viaggiare in ibrido con un passo simile a una elettrica, non è più necessario lo schema “in serie” (spinge sempre l’unità elettrica), ma possono essere sufficienti il plug-in, il full debitamente tarato o anche un mild opportunamente “rinforzato”. Contemporaneamente, in tempi recenti, c’è stato un ruggito dell’ibrido in serie che si propone come alternativa al molto più diffuso schema in parallelo. Un esempio è l’Audi che per la Dakar ha schierato un’elettrica extended range o, se volete, un’ibrida in serie: due motori elettrici spingono, un terzo produce energia. Uno schema simile è stato adottato da Nissan antesignana della motorizzazione elettrica (la Leaf fu Auto dell’Anno nel 2012). La filosofia E-Power, disponibile in Europa su Qashqai e X-Trail, sta avendo un grande successo perché, a prescindere dal consumo e dall’inquinamento che si annunciano competitivi rispetto al full hybrid, l’auto si guida esattamente come un’elettrica. E non è poco. Per concludere, l’extended range Mazda. Sull’elettrica CX-30, che non si distingue per un’autonomia record, è stato inserito un piccolo motore rotativo che toglie l’ansia da percorrenza.