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MILLERUOTE
di Giorgio Ursicino
Una fabbrica di batterie per auto

Green deal è troppo ambizioso, il mercato italiano dell'auto può collassare

di Giorgio Ursicino

Da Tokyo, che rischia di veder naufragare sul nascere le proprie sfortunate Olimpiadi, plana una notizia tutt’altro che trascurabile: Suzuki, Daihatsu, Isuzu e Hino hanno annunciato la creazione di una joint venture con Toyota che, da sola, avrà la maggioranza assoluta (60% della jv). Sembra un argomento che riguarda soprattutto il lontano mercato interno. In realtà, è il termometro che indica quanto sia infiammata l’atmosfera nel mercato globale dell’auto ora che l’elettrificazione è letteralmente esplosa e, se non viene pilotata, oltre agli innegabili benefici, rischia di causare parecchi danni collaterali. Alcuni protagonisti potrebbero restare sul tappeto colpiti da fuoco amico. Il mondo, infatti, non corre tutto alla stessa velocità è ciò che è bene per i “primi” potrebbe essere ostico da digerire da chi si trova in mezzo o in coda al gruppo. Anche la news nipponica non è che la punta dell’iceberg, la scossa di un movimento tellurico in atto da tempo. L’alleanza annunciata punta a realizzare su piattaforme condivise microcar, popolarissime nel Sol Levante, esclusivamente a batterie.

Un ulteriore passo nel rapporto di collaborazione fra la casa di Nagoya, che è anche il più grande costruttore al mondo, e le numerose aziende satellite che gli orbitano intorno. L’iniziativa, tutto sommato di routine, certamente non è estranea alla guerra totale che l’Europa sta per scatenare con il Green Deal. Uno tsunami al quale è difficile restare indifferenti anche se si vive su un’isola sperduta nel Pacifico. Questo aspetto riguarda da vicino anche il dibattito che si è scatenato in Europa e che accompagnerà tutto l’iter durante il quale le linee guida del nuovo “Piano verde” si trasformeranno in direttive vincolanti. Il Green Deal è senz’altro una trasformazione epocale in cui l’Europa punta con molta ambizione (forse troppa) a riconquistare quel ruolo di incontrastata leader che prima aveva sulle altre aree geografiche. E tutto sommato non è una cattiva idea.

Anche perché coinvolge quei diritti fondamentali sui quali siamo rimasti in vantaggio sulla concorrenza: la qualità della vita, quindi la salute, e la salvaguardia delle generazioni future. La mossa, però, si tira dietro anche i fondamentali economici, perché chi meglio cavalcherà la transizione energetica si ritroverà automaticamente in una posizione privilegiata. L’altra faccia della medaglia dice che però non bisogna esagerare. Quando un’evoluzione diventa una rivoluzione, è difficile tenere la barra dritta. Rischia di sfuggire di mano. Il segreto è portare a termine il cambiamento virtuoso nel modo più rapido, ma senza lasciare indietro nessuno. Sia fra i Paesi interessati sia fra la fasce sociali che possono avere diverse (anche rilevanti) capacità di spesa. Ebbene, secondo alcuni partner europei, a cominciare dalla Francia, il “cruise control” del Green Deal è stato posizionato troppo presto. Impossibile stargli dietro.

Oltre al ministro Roberto Cingolani, che ha parlato esplicitamente di «bagno di sangue per i lavoratori italiani» e di «pietra tombale per la Motor Valley» qualora il Green Deal non venisse modificato, hanno fatto sentire il loro dissenso anche i costruttori europei (Acea) che, fin qui, avevano sposato l’elettrificazione come una scelta obbligata puntando i loro target più in alto delle richieste delle cancellerie. «Se non ci saranno interventi molto rilevati da parte dei governi di tutti i settori coinvolti, quell’andatura è impossibile da tenere», è il campanello d’allarme suonato da Oliver Zipse, presidente di turno di Acea e numero uno di BMW, una delle case che è più avanti nell’auto ecologica. Più o meno lo stesso discorso di Akio Toyota (guida di Toyota e presidente dei costruttori giapponesi) che, qualche mese fa, lanciò un sasso nello stagno senza essere troppo ascoltato: «Bisogna stare attenti a non correre troppo, i tempi per certe cose non sono ancora maturi».

Gli obiettivi che il Green Deal vorrebbe dare all’automotive sono da brividi. La riduzione di emissioni di CO2 nel 2030, non del 37% rispetto ai 95 g/km attuali, ma del 55%. Cinque anni più tardi, nel 2035, chiusura totale del rubinetto: insomma, niente più auto con il motore endodermico. A scoppio. A idrocarburi. Tutti i costruttori avevano autonomamente posto come obiettivo il 2040 e stavano cercando di accelerare. Diverso, però, è farlo con cinque anni di anticipo e, per di più, per legge. Ma chi è il responsabile di questo volo bellissimo, ma solo con la tuta alare, senza paracadute? Non è un segreto che dietro gran parte di quello che di corposo accade a Bruxelles ci sia lo zampino della locomotiva Germania.

Ed anche questo approccio sembra in qualche modo ispirato dalla coppia Von der Leyen-Merkel. D’altra parte, Berlino manovra oltre la metà della produzione europea di veicoli con un gruppo, la Volkswagen, che rappresenta la punta di diamante della produzione di auto mondiale. Quello che non si può assolutamente fare è il passo più lungo della gamba. Pena la perdita di centinaia di migliaia di posti di lavoro, e l’avvio di una Europa a più velocità, anche dal punto di vista della mobilità e, soprattutto, dell’aria che respiriamo. Per dirla con il ministro Giancarlo Giorgetti, «sarebbe un colpevole balzo indietro, che ci spingerebbe a sacrificare decine di miglia di posti di lavoro. Non possiamo permettercelo».

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Giovedì 22 Luglio 2021 - Ultimo aggiornamento: 23-07-2021 09:30 | © RIPRODUZIONE RISERVATA
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