Romano Prodi
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Oltre il caso Fca/Il piano inclinato dell’auto italiana

Oltre il caso Fca/Il piano inclinato dell’auto italiana
di Romano Prodi
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Domenica 5 Maggio 2019, 00:16 - Ultimo aggiornamento: 19:04
Nello spazio di poche ore sono arrivate tre notizie, non certo brillanti, riguardanti il settore dell’automobile. Un settore che, anche in presenza della nuova rivoluzione industriale, rimane fondamentale per il futuro della nostra industria. 
La prima notizia potrebbe essere anche consolatoria: l’immatricolazione delle nuove automobili in Italia é aumentata in aprile dell’1,5% rispetto allo stesso mese dello scorso anno.

Si tratta però di una magra consolazione se riflettiamo sul fatto che, comprendendo tutti i primi quattro mesi dell’anno, la domanda è invece calata di quasi il 5%. Ancora più grave è prendere atto che la quota dell’unico produttore almeno parzialmente italiano (Fiat Chrysler) ha ulteriormente perso di peso, attestandosi intorno ad un quarto del mercato interno, con auto che vengono prodotte in parte sempre più rilevante da fabbriche localizzate in Paesi stranieri. Il tutto mentre gli altri tre leader del mercato italiano (Renault, Psa e Volkswagen) vi hanno robustamente accresciuto la propria presenza.

D’altra parte sono ormai anni che registriamo una continua perdita di vigore della nostra industria automobilistica, riguardo alla quale ci siamo giustamente consolati con i risultati dei nostri produttori di componenti.

Consapevoli del fatto che i nostri produttori di componenti, avendo come clienti le più raffinate fabbriche automobilistiche tedesche, continuano a dimostrare un’efficiente straordinaria. 
Sembra tuttavia che il destino si accanisca contro le nostre imprese del settore perché, nelle stesse ore in cui uscivano le non esaltanti statistiche richiamate in precedenza, veniva definitivamente firmata da parte di Fiat-Chrysler (Fca) la vendita ad un gruppo giapponese del più grande ed illustre produttore italiano di componenti: la Magneti Marelli, forte di otto miliardi di fatturato e 44 mila dipendenti. 

La transazione, ormai scontata da qualche tempo, è stata comprensibilmente giustificata dalla necessità di impiegare, da parte della Fca, maggiori risorse nella progettazione e nello sviluppo di nuovi modelli, soprattutto nel campo dei prodotti del futuro, come l’auto elettrica, che richiede davvero enormi quantità di denaro. Ha destato quindi una certa sorpresa leggere nel comunicato ufficiale che, dei 5,8 miliardi ricavati dalla vendita, ben due di essi saranno versati direttamente nelle tasche degli azionisti.

Tutto bene e tutto legittimo ma certo non il segnale di una strategia dedicata a fare assumere alla Fiat Chrysler un ruolo di leadership nella produzione dell’auto del futuro, dove i concorrenti spendono somme infinitamente superiori nella ricerca e nello sviluppo dedicati all’innovazione. Per completare la contabilità sulla destinazione delle risorse derivanti dalla vendita della Magneti Marelli fa un certo effetto leggere sul Financial Times di ieri che la Fiat Chrysler si è impegnata a versare 2 miliardi di dollari alla Tesla, ancora leader mondiale nella produzione di auto elettriche. Le nuove e più severe leggi anti-inquinamento europee permettono infatti che fra diverse imprese si possa mettere in atto una sorta di unione virtuale del parco macchine in modo che l’inquinamento medio delle autovetture prodotte dalle diverse imprese possa rientrare nei limiti previsti. 

L’accordo con la Tesla, anche se a caro prezzo, permette quindi alla Fca di rientrare in questi limiti fino a che non saranno in produzione nuove vetture. Non è quindi paradossale concludere che solo una parte minore delle risorse ricavate dalla vendita della Magneti Marelli potrà essere dedicata alla ricerca del nuovo.
Dato che assai spesso piove sul bagnato, è stato contemporaneamente reso pubblico che la Commissione Europea è in procinto di non considerare aiuto di Stato (quindi non illegale) la somma di ben 1,2 miliardi che i governi francese e tedesco hanno deciso di devolvere a un consorzio di grandi imprese dei due Paesi (tra le quali Total, Psa e Opel). Per fare che cosa? Per realizzare un impianto sperimentale (in Francia) e due enormi impianti produttivi di batterie di ultimo grido (uno in Francia e uno in Germania) in modo da controllare la parte prevalente della componentistica dell’auto del futuro.

Bisogna infatti tenere presente che, nell’auto elettrica, il motore è sostanzialmente costituito dalle batterie e che, con lo sviluppo di questa nuova forma di trazione, l’industria dei componenti tradizionali è destinata a ridursi drasticamente nonostante l’indubbia capacità dei nostri imprenditori impegnati nel settore. È quindi triste dovere constatare che, avendo scelto di isolarci da tutti gli altri Stati europei e di non collaborare con nessuno, l’Italia stia compromettendo il futuro delle imprese operanti in un settore nel quale abbiamo ancora qualcosa da dire. 
Non è tuttavia questo un caso unico perché il capitolo delle strategie concrete da mettere in atto per lo sviluppo dei diversi settori industriali non è all’ordine del giorno in nessuna delle priorità del nostro governo. Constatazione doverosa ma non sorprendente perché la politica industriale (che si esprimeva soprattutto con l’evocativa definizione di 4.0) è proprio scomparsa dall’agenda dell’esecutivo. 

Si parla continuamente di crescita e occupazione ma non ci si cura affatto di preparare gli strumenti coi quali la crescita e l’occupazione possano essere messe in atto.
 
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